Lino Banfi
(attore)
Roma 22.12.2021
Intervista di Gianfranco
Gramola
“A Milano, in via delle Forze Armate, dove
soggiornavo, c’era scritto: “Non si affittano camere ai meridionali”. Ma
li ho fregati tutti perché io sono nato ad Andria, in provincia di Bari e sulla
carta d’identità cancellai la “N” e diventò Adria, in provincia di
Rovigo”
Lino Banfi, all’anagrafe Pasquale Zagaria,
è nato ad Andria l'11 luglio 1936 ed è uno
degli attori comici più popolari e amati d'Italia. Dopo l’esperienza del
seminario, che ha accettato soprattutto per volontà dei genitori, nel 1954 Lino
Banfi si ritrova emigrante a Milano per provare a cimentarsi, da professionista,
nel teatro di varietà.
Signor Banfi, come ricorda i suoi
inizi?
Nel 1954 dalla Puglia ero sbarcato a Milano
senza un soldo in tasca. Dormivo alla stazione, negli scompartimenti dei treni
fermi e nelle case ancora in costruzione o dentro nei portoni. A 20 anni finii
di fare il militare ad Arma di Taggia, vicino Sanremo, nell'Ottantanovesimo
Fanteria.
Dove ha fatto il militare Gianni Morandi,
vero?
Si, era la
stessa caserma dove lo fece Morandi. Diventai caporal maggiore e trovai
finalmente un po’ di pace. Mentre in quel periodo tutti i ragazzi che dovevano
fare il militare piangevano perché non ci volevano andare, volevano stare a
casa e i loro genitori facevano i salti mortali per farli figurare ammalati, chi
si faceva venire la febbre finta durante le visite mediche, io invece ero felice
per la mia tranquillità, per avere da mangiare, per avere un letto per dormire
e per stare al caldo. Io venivo dai casini di Milano e in via delle Forze
Armate, dove soggiornavo, c’era scritto: “Non si affittano camere ai
meridionali”. Questo perché ci sono stati dei meridionali che avevano
combinato dei casini e quindi c’era questo astio verso i meridionali.
Però lei ha trovato da dormire.
Si, ma li ho fregati tutti perché io sono
nato ad Andria, in provincia di Bari e sulla carta d’identità cancellai la
“N” e diventò Adria, in provincia di Rovigo, per cui
non ero più pugliese e terrone e dicevo: “Me serve una camera par
mi”. Mi credevano veneto e mi davano la camera in affitto. Però per pagare
l’affitto bisognava avere i soldi, perché si doveva pagare prima in queste
lunghe camerate. Dopo tutti questi sacrifici, per fare l’attore ho fatto di
tutto, dal posteggiatore abusivo al guardia macchine, il gettonista e tante
altre cose. Quindi non vedevo l’ora di fare il militare e sotto la naja ho
fatto 18 mesi di pacchia perché appena lessero sulla mia carta d'identità che
facevo l'artista di varietà, mi impiegarono nell'organizzazione di spettacoli.
Quindi ho passato la naja facendo spettacoli e mangiando bene, a differenza di
altri. Nel periodo post militare cominciai a chiedermi: “E adesso? Il militare
l’ho fatto, la pausa per stare un po’ tranquillo e con la pancia piena è
finita. Devo andare a Roma per andare a fare l’attore e vedere da dove
cominciare”. Allora lì mi aiuto Lucia, l’attuale mia moglie con la quale il
1° marzo facciamo 60 anni di matrimonio. Allora eravamo fidanzatini, lei faceva
la parrucchiera e aveva a Canosa di Puglia questo salone ben avviato e
guadagnava bene e quindi ogni tanto mi mandava dei soldini e io tiravo avanti.
Le ho detto: “Invece di mandarmi dei soldi, se tu mi vuoi bene, un giorno ci
sposeremo, però mi devi aiutare affinché a Roma io abbia una dimora fissa. Poi
il resto verrà, se lavoro o se non lavoro, qualcosa troverò, però io voglio
avere la sicurezza di dormire a casa a Roma. Se trovo una pensioncina mi paghi
un anno di affitto anticipato, così io sto tranquillo”. E così fu. A
Monteverde Vecchio, che sta tra il Gianicolo e Trastevere, riuscì tramite degli
amici che vivevano a Roma, a farmi affittare questa camera da
una signora per un anno, pagando anticipatamente ed era una bella cifra
per quell’epoca. Lei ne aveva bisogno perché faceva la sarta di vestiti da
sposa. Solo che questa signora non disse la verità a Lucia, la mia fidanzatina
di allora, cioè non disse che però la stanza, la mattina alle 8, le serviva
perché lei doveva cominciare a lavorare e fare la sarta tutto il giorno. E io
mi trovai di fronte a questo casino, perché finivo la sera tardi dopo qualche
spettacolo e andavo a letto verso le 2 di notte e questa voleva la stanza libera
per le 8 del mattino. Allora io da quel giorno, alle 8 del mattino uscivo da lì
e da Monteverde Vecchio e facevo a piedi fino alla stazione di Trastevere, mi
fermavo in questa stazioncina, mi coprivo alla bene meglio con questa specie di
cappotto che avevo e aspettavo fino alle 10.30 per andare dopo alla Galleria
Colonna, che adesso si chiama Galleria Alberto Sordi. Questo per dire com’è
andata la mia passione, il mio amore e il grande desiderio di venire a Roma.
A quei tempi chi erano i suoi miti, i suoi
artisti di riferimento?
Intanto Totò. Lui passava ogni 3 o 4 giorni
all’ingresso di Galleria Colonna con la macchina
con l’autista e si fermava all’angolo sulla sinistra dell’entrata, dove
c’è ancora oggi l’edicola. Allora io non sapevo che molti giovani
come me , comici, musicisti, attori, aspiranti artisti guardavano l’orologio e
ad una certa ora andavano all’ingresso della Galleria Colonna. Allora ho
chiesto perché a quell’ora tutti andavano all’ingresso della Galleria e uno
mi ha risposto: “Perché a quell’ora passa Totò, si ferma e da un po’ di
soldi a questi artisti”. Noi giovani abbiamo avuto l’istinto di avvicinarci,
ma non toccava a noi, perché prima c’erano quelli più anziani, quelli che
lui conosceva. Però questo rito me lo ricordo, questa attesa del Principe De
Curtis. In Galleria poi ho conosciuto vari personaggi che allora erano già
abbastanza famosi a loro modo, come Beniamino Maggio, uno dei fratelli Maggio,
con il quale poi ho lavorato, Un altro si chiamava Alberto Sorrentino, che
faceva sempre il caratterista nei film di Totò e in altri film comici. Da lì
poi è partito il fatto che ero molto bravo a recitare e a
fare le imitazioni di quelli di colore. Mi mettevo una calza nera in
testa, come fanno i banditi per le rapine e sembravo brutto, con il naso
schiacciato, che però mi permetteva di fare le imitazioni di Nat King Cole e di
Louis Armstrong ed era una novità per allora, negli anni dell’avanspettacolo.
Ero un Banfi con un cervello pieno di creatività. Poi diventai un comico e
negli spettacoli diventai anche amministratore, quindi un po’ di soldi agli
attori e un po’
per me. Da allora cominciato con l’avanspettacolo, poi il cabaret, i
film ed è partita finalmente la mia carriera.
Ma i suoi genitori che futuro sognavano
per lei?
Mio padre aveva fatto solo la terza
elementare, che secondo lui già bastava, perché era già una cultura media,
secondo il suo cervello e diceva che era come se avesse 5 lauree, quelle della
vita e quella della verdura, perché lui era ortolano. Sapeva tutto del sedano,
del finocchio, dei peperoni e dei pomodori. Quelle erano delle lauree diceva.
Però avendo trovato in me un figlio che voleva studiare, che a quei tempi ce
l’avevo la voglia di studiare,
diceva che mi voleva prete o avvocato. Perché prete? Perché da prete puoi
diventare Cardinale. Pensa caro Gianfranco che testa, che mentalità che aveva.
Allora mio zio Michele, che era il comico della famiglia Zagaria, disse:
“Perché non diamo vita alla provvidenza? Da Cardinale può diventare Papa.
Oppure avvocato, che poi potrebbe diventare notaio e quindi diventare ricco,
questo per la nobiltà della famiglia”. Allora hanno deciso di mandarmi in
seminario, quindi dovevo farmi prete e la loro ambizione era che diventassi
Cardinale. Invece non andò così perché non vedevo l’ora di scapparmene dal
seminario e ne combinavo di tutti i colori, finché il Vescovo di Andria di
allora mi disse che era meglio che
non andassi avanti in seminario, perché ero destinato a far ridere le persone.
In ogni recita che facevo la gente rideva, anche se recitavo cose sacre, San
Pietro, San Giovanni, la morte, la passione, ecc… “Ma perché la gente
ride” mi chiedeva il Monsignore. “Che ne so, io dico quello che c’è
scritto”. E lui: “Si, ma lo dici con una faccia”. Far sorridere la gente
è una bella missione. Mio padre ha fatto in tempo a vedere il mio successo,
quindi a perdonarmi, non del tutto, ma era felice. Negli anni ’70 avevo già
fatto qualche film e delle cose e quindi non si toglieva lui il cappello, il
famoso borsalino, incrociando i signorotti del paese. A quei tempi si usava
togliersi il cappello per salutare “Buongiorno don Pasquale, buongiorno don
Michele” tutti erano “don” questi nobili ricchi, questi signorotti del
paese. Quando diventai famoso gli dissi: “Papà, adesso basta. Vedrai che il
cappello se lo toglierà qualcuno di loro per salutarti e dirti che sei il papà
di Lino Banfi”. Per fortuna prima di andarsene mio papà ha avuto questa
soddisfazione.
Qual è il segreto del suo successo e come
vive la popolarità?
Il segreto è che ho usato il paraocchi per
non vedere le cose miserabili, le tristezze e le cose brutte che ho vissuto,
nelle quali ho trascinato anche quella poverina di mia moglie, che all’inizio
stava bene, aveva una sua attività che rendeva bene. Poi scappammo via (la
famosa fuitina), lasciammo tutto e lei ha cominciato tutto da capo con me,
quindi tanti sacrifici, ristrettezze e poi abbiamo costruito assieme questo
avvenire, questa casa. Avere fatto questo è già un grande successo nella vita.
Sono stato anche fortunato ad avere successo e notorietà e il benessere è
arrivato da quando sono arrivato a Roma. Ecco perché a questa città devo dare
in cambio qualcosa. Ho dato la mia romanità e sono diventato anche romanista,
perché vivo a Roma da ben 63 anni ed è come se io fossi nato qui.
Lei è molto attivo in fatto di solidarietà.
Io sono da 21 anni ambasciatore Unicef, sono
andato a fare trasmissioni anche all’estero e qualche anno fa sono stato in
Angola, in Eritrea, in Somalia e tutti questi posti brutti dove era tutto
pericoloso, campi minati, ecc…ma io mi sono avventurato ugualmente. A casa mia
vive una famiglia dello Sri Lanka, perché mia moglie ha bisogno di una persona
che la segua perché fisicamente sta bene, ma ha bisogno di compagnia, perché a
volte non ci sono. Ho preso in casa questa coppia che non sapeva una parola in
italiano e dopo hanno avuto un bambino e da allora vivono dentro casa mia
insieme a questo bambino che ora ha 7 anni. Lui mi chiama nonno e mia moglie
nonna. Proprio stamattina, conlcudendo il discorso sulla solidarietà,
prima di andare a scuola mi ha detto: “Nonno, è arrivato un altro
panettone”. Nel periodo natalizio mi arrivano pandori, panettoni e molti
pacchi. Gli ho detto: “Ricordiamoci che noi dobbiamo fare del bene agli altri,
quindi questi panettoni noi li regaliamo a quelle persone che non ne hanno o che
non possono permetterselo e non hanno niente da mangiare. Quindi prendiamo i
Panettoni, poi compriamo 50 chili di pasta, un po’ di sale e del pomodoro e
facciamo felici una cinquantina di famiglie povere”. Mi piace fare queste cose
però non c’è bisogno di dirle, sono azioni che si fanno e basta. Ma si fanno
volentieri e sono molto felice di far felice delle persone.
E’ vero che ha invitato il Papa a
mangiare nella sua Orecchietteria?
Non è che l’ho invitato ufficialmente, però
mi farebbe piacere. Lui mi ha fatto avere una lettera che è talmente bella che
l’ho incorniciata e ce l’ho nel mio studio. Inizia con “Caro nonno
Libero”. Oggi il presidente del Consiglio Draghi in una conferenza, parlando a
noi italiani dei problemi e dei casini che abbiamo, ad un certo punto ha detto:
“Io sono il nonno d’Italia”. Ma come, il nonno d’Italia sono sempre
stato io e allora ho pensato perché io e lui non possiamo essere nonni degli
italiani ex equo, cioè alla pari, in ugual misura? Però non mi si può
togliere questo ruolo, questo titolo, anche se io adoro Draghi che vorrei sia al
Quirinale che come presidente del Consiglio.
Lei ha conosciuto tre Papi.
Si, tre Papi. Come ti dicevo prima mi ha
mandato una lettera ad personam per la festa dei nonni, chiamandomi “Caro
nonno Libero”, e ringraziandomi con parole affettuose per il mio ruolo
di nonno d’Italia e ci siamo incontrati poi al mattino alle 7.30 a
Santa Marta. Qualcuno gli ha parlato di me e forse ha visto qualcosa che ho
fatto in televisione e non ho mai saputo il suo interesse verso di me. Mi ha
dato questo appuntamento la mattina presto per stare insieme e prima
dell’udienza generale. Nel 2017 lo incontrai e la prima cosa che mi disse,
mettendomi la mano sulla spalla fu: “Lei è una persona molto importante”.
“Cominciando così, Santità, cominciamo male – dissi io – se lei dice a
me che sono importante, io che devo dire di Lei? Non ho parole”. E così
l’ho fatto sorridere, gli ho detto che siamo coetanei e che condivido il suo
pensiero di pace. Poi alla fine è stato bello perché gli dissi: “Santità,
se io adesso racconto a tutti i miei amici che siamo stati a chiacchierare un
quarto d’ora, non mi crede nessuno. Io faccio l’attore di professione”.
Cercavo qualcuno che potesse farci una foto insieme, così per avere una
testimonianza del nostro incontro. “Ma lei non ha un telefonino, signor
Banfi?” disse. “Si, ce l’ho Santità, però non so fare i selfie”
risposi. “E neanche io” mi rispose. A quel punto quel prete che mi aveva
accompagnato e che per discrezione era rimasto fuori dalla stanza, ebbe quasi
pietà e disse: “Santità, entro e faccio io la foto ricordo”. Entrò e fece
la foto con papa Francesco con la mano appoggiata sulla mia spalla. Come dicevo
ho conosciuto tre papi, che poi non so se al plurale si dice papi o papa. Un
giorno lo sapremo. E’ stata comunque una bella soddisfazione aver fatto
sorridere tre papi.
Due parole su alcuni personaggi che ha
consciuto. Lando Fiorini?
Nel ’68 io lavoravo all’Ambra Jovinelli
ed ebbi molto successo e in ricordo
della scomparsa del nostro grande amico e mio corregionale, Toni Santagata,
raccontai ai giornalisti non le solite cose tristi che si dicono quando uno non
c’è più, ma un aneddoto e cose che fanno ridere. Io andai al Puff nel ’68
dopo che Enrico Montesano aveva litigato e se n’era andato. Litigarono e Lando
Fiorini sembra che abbia detto al regista Leone Mancini: “Sostituiremo
Montesano con il primo stronzo che troviamo all’Ambra Jovinelli”. E io ho
scoperto dopo qualche anno che lo stronzo ero io (risata). La sera, dopo aver
visto lo spettacolo e come recitavo, dissero: “Questo è il comico che
cercavamo, giovane, che sa parlare e fare
monologhi con il pubblico”. Ero fresco di studi e perlomeno non mi perdevo nei
condizionali e nei congiuntivi che era già tanto per quell’epoca e allora
Lando Fiorini mi scritturò. Poi conobbi bene Lando come amico, una persona
adorabile sotto tutti gli aspetti. Buono ed era uno che amava molto la famiglia
e poi era anche un bel ragazzo e cantava molto bene, soprattutto in “romeno”
(risata).
Nino Manfredi?
Con lui ho fatto una paio di cose e in uno
fece il frate, con la regia del figlio Luca. Disse al figlio: “Che stai
facendo?”. “Sto facendo una fiction con Lino Banfi” rispose Luca. “Mi
piace Banfi e mi piacerebbe fare una partecipazione nella fiction dove recita
lui” disse Nino. Quando Luca me lo disse, ero al settimo cielo perché io ho
sempre considerato Nino Manfredi un maestro e quindi per me era un grande onore
lavorare con lui. Poi facemmo un film dove eravamo protagonisti, anche se il
vero protagonista ero più io. Lui faceva la parte di mio fratello professore di
liceo gay, un film molto contenuto, molto garbato e molto bello.
Festeggiammo l’uscita di questo film che fece molto ascolto sulla Rai e
una sera, a casa sua, a cena, c’era anche il fratello di Nino, che si chiamava
Dante ed era un grande oncologo, io stavo seduto in mezzo a Nino e a Dante e ad
un certo punto Nino mi mise un
braccio sulle spalle e disse a
Dante: “Sai che con Banfi abbiamo un altro fratello?”. Per me questa frase
fu una cosa bellissima e commovente. E
Nino mi ha sempre trattato come un fratello. Quando è stato male per quasi un
anno, in terapia intensiva, con tutte quelle cannule attaccate e non muoveva
nenche lo sguardo, io andavo a trovarlo. Finivo di girare a Cinecittà e
scappavo per andare a trovarlo in questo ospedale al centro di Roma, dove mi
facevano entrare per un attimo. Andavo vicino al letto, gli prendevo la mano e
gli dicevo delle cose tipo: “Hai fatto questo film con me, hai lavotato con
me, ti ricordi?”. Qualche reazione c’era ma era minima. L’ho vissuto fino
all’ultimo, fino a che se ne è andato. Io lo adoravo come persona e ancora lo
adoro.
Laura Antonelli?
L’ho scoperta dopo tanti anni, ma per me è
stata solo per una questione di grande amicizia e di grande affetto che avevamo,
anche lei nei miei confronti. Io l’ho pure aiutata negli ultimi tempi dal
punto di vista economico. Le mandavo spesso qualche cosa quando lei ha avuto
tutte quelle vicissitudini brutte. Ogni volta che andavo in televisione e mi
capitava di parlare delle attrici con cui ho lavorato, parlavo sempre di lei e
la salutavo dicendole “Ti voglio bene”. Avevamo fatto un film insieme dove
lei faceva la parte di mia moglie. Il film era “Roba da ricchi”, con la
regia di Sergio Corbucci, dove recitava anche Claudia Gerini, che allora aveva
16 anni e nel film era la figlia mia e di Laura. A Laura Antonelli avevo
insegnato anche l’accento pugliese per essere più credibile e Laura era
diventata bravissima, sembrava una pugliese vera. Poi, come sappiamo, morì
all’improvviso e lasciò un biglietto dove c’era scritto: “Se mi succede
qualcosa, avvertite Lino Banfi”. E
questo bigliettino era una gioia da un lato perché aveva pensato a me prima di
andarsene, ma mi ha addolorato molto. Ricordo che era successo d’estate e sono
scappato via da Roma per raggiungere Cerveteri, dove lei viveva. Laura era una
persona a cui volevo molto bene e penso che Laura abbia contraccambiato
lasciandomi quel biglietto, perché lei mi ha stimato e voluto bene.
Un domani come vorrebbe essere ricordato?
Io ho questo posticino al Verano, questa
tomba di famiglia, un’edicola, come la chiamano ora, che si chiama Zagaria –
Lagrasta, che sono i cognomi mio e di mia moglie. Ma quando sarà ora, farò
aggiungere Banfi sopra e farò scrivere dai miei figli questa scritta: “Se ti
ho fatto sorridere, spreca una lacrimuccia per me, ma sorridendo”. Questa
frase è una mia fissazione. Io vorrei che la gente mi ricordasse così,
dicendo: “Vedi, qui c’è Banfi. Quello che ha fatto quel film e anche
quell’altro film” e che si commuova un attimo, però con il sorriso sulle
labbra.
Come passerà il Natale signor Banfi?
In famiglia per noi è importantissima la
vigilia di Natale. Il giorno di Natale per noi invece è un giorno normale,
anche perché i figli se ne vanno per i fatti loro. Ma la vigilia da anni
l’abbiamo passata tutti insieme, all’insegna dell’ittica, come la chiamo
io, perché si mangia tutto a base di pesce, dalle tartine alla pasta con il
pesce e poi frutti di mare e altro pesce fresco e buono che riesco a trovare.
Poi l’albero e i regali.
Quale personaggio del presepio vorrebbe
essere?
Vorrei essere il bue, perché mi è sempre
piaciuto come animale e perché noi abbiamo capito fin da bambini che lui dava
calore a Gesù con il suo alito. Lui dava agli altri il suo calore. Ha
riscaldato la Madonna, San Giuseppe il Bambinello con il suo fiato.
Per questo mi piacerebbe essere “un fiato di calore”.
Cosa si augura per il 2022?
Che riusciamo almeno ad avere una tregua,
come la vorrebbe avere l’umanità durante le guerre. Una tregua di un paio di
mesi ci lascerebbe respirare un po’, diciamo una tregua umanitaria.